Così il Belgio ha normalizzato l’eutanasia – Uno studio internazionale mostra la trasformazione della pratica in trattamento clinico contro la sofferenza (da Avvenire dell’11 giugno 2019)

Data:
11 Giugno 2019

di Assuntina Morresi

In 15 anni sono aumentate di dieci volte le morti per eutanasia in Belgio: erano 235 i fascicoli ricevuti nel 2003 dalla Commissione federale (Federal Control and Evaluation Commission on Euthanasia, Fcece), sono stati 2.357 nel 2018, al culmine di un trend di costante aumento. Ma diversi studi pubblicati su riviste scientifiche ritengono che i numeri siano sottostimati del 50%, tanto che Wim Distelmans, presidente della Fcece, ha dichiarato che «il numero delle eutanasie eseguite ma non dichiarate resta nell’ombra, il che ci impedisce di avere una visione reale dell’estensione del fenomeno».

Basterebbero questi fatti a dare l’idea del principale risultato dell’applicazione della legge belga sulla morte medicalmente assistita, datata 2002, coetanea e gemella di quella olandese della quale si è tornato a parlare nei giorni scorsi dopo la tragica fine di Noa Pothoven, la 17enne di Arnhem che si è lasciata morire di fame e di sete nell’indifferenza generale. In Belgio si è assistito alla progressiva ‘normalizzazione’ all’interno della società della morte per legge, analogamente a quanto accade nell’intero Benelux, il territorio europeo formato da Belgio, Olanda e Lussemburgo, dove vigono leggi eutanasiche che costituiscono l’avamposto occidentale di un drammatico esperimento sociale. È importante capirne il perché, soprattutto dopo il drammatico esito della vicenda di Noa e mentre in Italia la Corte costituzionale manifesta l’intenzione di depenalizzare l’aiuto al suicidio in qualche forma se il Parlamento non agirà entro il 24 settembre, come ha chiarito nell’ordinanza 207 del 23 ottobre 2018.

A tale scopo è di estremo interesse uno studio interdisciplinare pubblicato dall’Università di Cambridge, Euthanasia and Assisted Suicide. Lessons from Belgium («Eutanasia e suicidio assistito, lezioni dal Belgio»), che ben descrive le conseguenze sociali e antropologiche della morte assistita. I contributi sono di studiosi di diverse discipline e orientamenti culturali e disegnano un quadro complessivo articolato e coerente, con un punto centrale comune: l’eutanasia in Belgio è diventata un atto medico, una delle possibili opzioni del fine vita nell’ambito delle cure palliative e accanto al rifiuto o interruzione dei trattamenti anche di sostegno vitale, tutti messi sullo stesso piano. Dal punto di vista legale non si parla mai di suicidio assistito ma solo di eutanasia, definita «l’atto che intenzionalmente termina la vita di una persona dietro sua richiesta, e che è compiuto da un individuo diverso dalla persona in questione».

La Fcece ha stabilito, autonomamente, che i suicidi assistiti comunicati rientrino nella normativa. Dai diversi scritti emerge la stessa storia. Introdotta come eccezione in casi estremi, la morte procurata sviluppa subito una dinamica propria all’interno delle pratiche mediche, trasformandosi velocemente in un atto terapeutico e appropriandosi di conseguenza di tutte le caratteristiche di una cura: se dare la morte è un gesto benefico, una forma estrema di palliazione, in piena continuità con il corredo di trattamenti già possibili, perché limitarne l’uso? Se è il rimedio a sofferenze estreme, perché escluderne minori e malati psichici? Se è considerato l’antidolorifico più efficace, perché somministrarlo solo a chi è capace di chiederlo, e non metterlo a disposizione in generale, come per gli altri analgesici? on deve sorprendere, quindi, che nel biennio 2016-17 in Belgio sia stata eseguita l’eutanasia anche su tre minori – 9, 11 e 17 anni – fra cui uno con fibrosi cistica, cioè una patologia con un’aspettativa di vita superiore ai 40 anni; né che aumentino i richiedenti con ‘poli-patologie’, cioè molteplici disturbi fra i quali si includono ad esempio l’incontinenza, l’insorgere di una demenza, il marcato deperimento fisico, la sordità, ovvero le condizioni tipiche dell’età avanzata.

Non sorprende che per «motivazioni psichiche» si intendano non le patologie psichiatriche – conteggiate a parte – ma «perdita di autonomia, solitudine, disperazione, perdita di dignità », né meraviglia che fra gli eutanasizzati con meno di 40 anni ce ne siano stati alcuni con sindrome autistica. In altre parole: i malati terminali, maggiorenni e consapevoli sono solo una parte di coloro che possono ottenere la morte assistita. In quest’ottica uno dei contributi più efficaci nel volume è quello di Benoit Beuselink, oncologo, che racconta cos’è cambiato nella sua vita professionale quotidiana con la legge sull’eutanasia.

Le cifre ufficiali confermano la percezione di chi è in prima linea a curare: le richieste eutanasiche aumentano e ci si trova a discuterne all’inizio, con la diagnosi appena comunicata e il malato che non vuole neppure prendere in considerazione opzioni terapeutiche, tanta è la paura di soffrire. Ma se è il paziente a ritenere che non valga più la pena di vivere la propria vita il medico non deve più preoccuparsi di curare ed è obbligato a diventare «il giudice di questioni di autonomia e di sofferenza mentale/esistenziale mentre cerca di risolvere questi problemi amministrando la morte». L’eutanasia finisce quindi per esulare dalle competenze mediche, tanto che alcuni sostenitori suggeriscono che se ne occupino gli assistenti sociali, perché non tutti coloro che chiedono di morire possono considerarsi ‘pazienti’.

L’oncologo elenca le sue preoccupazioni: le cure palliative perdono la loro specificità, visto che la morte procurata è considerata una palliazione. I malati sono in pericolo perché la somministrazione dell’eutanasia varia a seconda degli orientamenti di medici e comitati etici e non delle condizioni cliniche dei richiedenti. Chi è depresso rischia di più, perché la domanda di morte non viene più considerata un sintomo della depressione ma l’espressione di una volontà. Ma, soprattutto, il ‘rispetto’ per una autodeterminazione assoluta spazza via l’umana solidarietà: se la morte su richiesta è espressione di libertà e non più un disvalore, perché dissuadere e aiutare a vivere?

La normalizzazione emerge anche da alcuni aspetti solo apparentemente secondari, ma significativi: come in Olanda, ogni procedura eutanasica viene verificata a posteriori dalla Fcece, che monitora il rispetto della legge. La Commissione si riunisce mensilmente, il lavoro è soprattutto su base volontaria, mediamente ogni esperto esamina circa 200 fascicoli al mese, quasi 7 a giorno: il materiale viene spedito a casa, e nell’incontro mensile si discutono i casi problematici. La Commissione può chiedere ulteriore materiale e altre audizioni, se lo ritiene opportuno.

Per la segnalazione di una sospetta illegalità al procuratore serve la maggioranza di due terzi, ma dall’entrata in vigore della legge è avvenuto solo per una persona, dopo la diffusione di un documentario dedicato al suo suicidio assistito. Nell’ultimo rapporto biennale non si è raggiunta la maggioranza in un caso, comunque descritto: si tratta di un paziente in dolorosa agonia da 24 ore, con attesa di vita di 2-3 giorni, che non aveva fatto alcuna richiesta di eutanasia, neppure con apposito biotestamento, ma per il quale «il comportamento e la comunicazione non verbale sono stati interpretati dai medici, dal personale curante e dai membri della famiglia come una richiesta di eutanasia». Chissà come doveva essere il suo «linguaggio non verbale» per chiedere una sedazione palliativa profonda, anziché di essere ucciso.

Ultimo aggiornamento

11 Giugno 2019, 23:14

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