La politica e le nomine. Non bastano nuovi criteri, il problema sono le aziende sanitarie che hanno fallito la loro missione (da quotidianosanita.it del 6 maggio 2019)

Data:
8 Maggio 2019

La volontà del Governo, in particolare dei Cinque Stelle, di estromettere la politica dalle funzioni di selezione e nomina del mamagement sanitario è  apprezzabile perché darebbe modo di stimolare un cambiamento in meglio, favorendo l’ingresso delle garanzie meritocratiche nei processi selettivi del ceto dirigente della salute e tagliando, così, i cordoni che legano indissolubilmente la dirigenza del sistema sanitario alla politica, che sino ad oggi l’ha nominata e dominata ovunque. Ma temo che non basti a risolvere i problemi, forse serve una riforma quater

06 MAG – Si sta facendo strada nel Governo l’idea di riformare la disciplina delle nomine nella sanità pubblica, tutte rimesse sino ad oggi alla politica, sia in via diretta che indiretta, quest’ultima esercitata dalla stessa di «seconda mano», attraverso la prerogativa attribuita ai manager aziendali di scegliere i già «primari» e la dirigenza che conta sul piano gestionale.

C’è la tendenza dei pentastellati a voler completamente sottrarre l’individuazione dei vertici dell’aziendalismo della salute ai voleri della governance politica regionale. Di contro, ci sono le resistenze della Lega ad accettare questa radicale espulsione delle Regioni dall’incidere politicamente sulle anzidette nomine.

Al di là delle tesi in gioco, di per sé insufficienti a garantire le migliori scelte professionali, necessiterebbe individuare e circoscrivere proposte alternative all’attuale sistema delle nomine, soprattutto chiarendo le metodologie selettive prescelte che, se sottratte all’attuale completo dominio della politica, occorrerebbe che fossero indirizzate verso l’espletamento di procedure agonistiche, quantomeno del tipo di quelle concorsuali adottate per i segretari comunali.

La richiesta del M5S è comunque innegabilmente apprezzabile perché, se condivisa legislativamente, darebbe modo di stimolare un cambiamento in meglio, favorendo l’ingresso delle garanzie meritocratiche nei processi selettivi del ceto dirigente della salute e tagliando, così, i cordoni che legano indissolubilmente la dirigenza del sistema sanitario alla politica, che sino ad oggi l’ha nominata e dominata ovunque, a tal punto da registrare punte di asservimento assoluto nelle regioni del sud, di alcune del centro e nelle isole.

Ci vuole anche altro
Fatta questa premessa, la domanda che sorge spontanea è relazionata alla sufficienza o meno delle modifiche dibattute all’interno del Governo – che si condividono nell’obiettivo di sottrarre alla politica il dominio delle nomine del management sanitario – per fare sì che le performance della sanità migliorino decisamente, sia in termini di qualità erogativa dei Lea offerti alla collettività che di formazione positiva dei bilanci caratteristici, deboli ovunque e pieni di guai nel Mezzogiorno.

Per conseguire un siffatto risultato occorre, ovviamente, sottolineare che le misure proposte dai cinquestelle non consentirebbero di per sé di eliminare gli attuali guasti, lo stato di assoluta precarietà che regna sovrana specie nel sud del Paese, che conta circa venti milioni di abitanti, molti dei quali costretti ad emigrare per trovare altrove la risposta ai loro bisogni – finanche primari – di salute, generando una mobilità passiva che va oltre il miliardo di euro.

Sarebbe un errore grave supporre l’estromissione tout court della politica regionale. Occorrerebbe, quantomeno nel rispetto della autonomia che compete ineludibilmente alle Regioni, fare in modo che la stessa debba attingere a graduatorie prodotte ad esito di un concorso pubblico, in quanto tali più garanti degli attuali elenchi che, per come costruiti a mente del d.lgs. 171/2016, sono da considerare una colossale presa in giro, dal momento che lasciano pressoché le cose così come stavano, a tutela di quel solito management che nel Paese domina da decenni, spesso creando danni irreparabili.

Ciò in quanto, le scelte dei direttori generali delle aziende della salute devono essere corroborate da un irrinunciabile criterio che pretende l’assunzione della responsabilità della politica, che governa la sanità, nel conseguire i risultati necessari a rimuovere i gap organizzativi ed erogativi, proprio per questo tenuta ad assicurare una governance profondamente conoscitrice del territorio e delle debolezze da colmare, anche sotto il profilo strutturale. Il tutto conseguente al «progetto industriale» insito nella programmazione sociosanitaria regionale, che dovrà essere immancabilmente di tipo integrato.

Da qui, nasce l’esigenza di una programmazione fatta bene e attualizzata routinariamente, soprattutto definita con la preventiva rilevazione del fabbisogno epidemiologico, mai correttamente rilevato in tutto il Paese, e l’altrettanto preventivo coinvolgimento dei sindaci, posti a guardiani della corretta esecuzione, nell’esercizio della rappresentanza delle collettività amministrata.

Un dovere istituzionale, quello di programmare bene l’intervento sociosanitario, trascurato in gran parte del Paese, meglio «perfezionato» con troppa leggerezza e senza la dovuta preventiva analisi dei bisogni primari latenti e la pesatura dei rischi, soprattutto in tema di condizioni di salute generalizzata della utenza di riferimento, di sicurezza dei luoghi e delle condizioni di lavoro, di tutela dell’ambiente e della alimentazione nonché di quelle nuove malattie che affliggono la psiche, sia in relazione ai preoccupanti comportamenti crescenti della popolazione giovanile che a quella disoccupata ovvero espulsa dal mercato lavoristico e, comunque, a quella priva del necessario sostegno economico.

Ciò che non va
La tutela della salute ha bisogno di constatazioni obiettive e di una produttiva autocritica, generativa delle più opportune trasformazioni, di quelle solitamente concretizzabili attraverso riforme strutturali, delle quali nella sanità nazionale c’è tanto bisogno.

Al riguardo, la parzialità dell’intervento legislativo programmato in materia di nomina dei managerescluderebbe il conseguimento ex se del migliore risultato, atteso che l’insufficienza del Ssn – nel rendere uniformemente esigibili le prestazioni rese in una gran parte del Paese, soprattutto nella parte corrispondente al già Mezzogiorno esteso alle isole – è determinata da uno stato di patologia cronica, di sofferenza funzionale e gestoria che rintraccia le sue origini nell’intervenuto aziendalismo e, solo conseguentemente, nella eccessiva intrusione della politica nell’effettuare, troppo liberamente, le scelte dei direttori generali di aziende sanitarie e ospedaliere nonché, per via indiretta, delle nomine successive.

Il riferimento critico va, pertanto, ricondotto all’introdotto sistema aziendale voluto dal legislatore del 1992, quale soluzione al precedente mondo delle uu.ss.ll. disegnato dalla legge 833/1978, ritenuto a suo tempo inquinato dai difetti gestori causati da quegli interessi tipici del municipalismo che inducevano i delegati ad amministrarle ad esclusivo vantaggio degli enti locali dai medesimi rappresentati.

A distanza di circa trent’anni anni di persistente permanenza di un tale modello gestorio – sensibilmente rivisitato nel 1999 e rattoppato negli anni successivi, generativo di un fallimento che non ha eguali con undici sistemi sanitari regionali sottoposti a piani di rientro dei quali cinque commissariati – andrebbe perciò analizzato il suo funzionamento nel tempo, approfondendo però le cause del suo essere divenuto un sistema non affatto garante dell’uniformità dei livelli essenziali di assistenza, preteso dalla Costituzione, e produttivo in larga parte di diffuse perdite di esercizio, nonostante i crescenti ricavi, goduti extra riparto statale, provenienti dalle costose compartecipazioni degli assistiti (i ticket).

Il tutto, esaminandone le differenti peculiarità che caratterizzano i sistemi sanitari regionali che, da sempre, si distinguono per qualità dell’erogazioni delle prestazioni, soprattutto ospedaliere, e per risultati economici, aberranti in determinate aree geografiche perché produttivi di deficit di erogazione di Lea, in alcune regioni da terzo mondo, e patrimoniali inenarrabili.

Una tale considerazione porta ad effettuare una analisi seria e non affatto condizionata dalle solite difese d’ufficio di cui gode l’attuale sistema gestorio che, come vedremo, è ben lungi dal garantire, ovunque, una tutela della salute accettabile, anche perché diversamente composito nel suo insieme strutturale e funzionale.

Le debolezze dell’attuale disciplina, che disegna il funzionamento del Ssn per nulla soddisfacente in una gran parte del Paese che conta un terzo della popolazione nazionale, impongono una riscrittura sistemica. L’aziendalismo non ha affatto fornito, per i 18 anni dal suo esordio, una diffusa buona prova di sé – nonostante le estenuanti riassicurazioni rappresentate da parte di chi su una siffatta opzione ha costruito il suo ben retribuito mestiere di manager, di fornitore abituale di beni e di soggetto accreditato/contrattualizzato, prioritariamente di quelli titolari di consistenti filiere erogative – a causa anche della politica che ne ha fatto un cattivo uso, cavalcandolo con le nomine dei direttori generali quasi mai nel rispetto della meritocrazia, fatte le dovute eccezioni. Un sistema, questo, che ha assicurato «comodità» irrinunciabili e determinato compromissioni e complicità tali da rendere possibili infiltrazioni di ogni genere di mafia e diffuse corruttele, accentuate in alcune regioni più che altrove.

Una constatazione obiettiva
Una esigenza irrinunciabile quella di riscrivere l’attuale sistema, non solo perché oltre la metà delle Regioni sono state via via obbligate a piani di rientro con quattro di esse ancora sottoposte – a volte per un decennio e oltre – a commissariamento governativo (non cinque solo perché l’Abruzzo ne è recentemente uscito), ma anche perché ciò che si tende a far passare per un servizio complessivamente efficiente è dovuto ad alcune peculiarità fondamentali e favorevoli solo per alcune regioni.

I sistemi regionali della salute solitamente portati ad esempio del buon funzionamento, attrattivi di cinque miliardi di mobilità attiva proveniente da quelle regioni incapaci di garantire efficientemente i Lea, sono infatti quelli caratterizzati da una organizzazione di insieme funzionalmente assicurata dalla somma di strutture d’eccellenza, accreditate e contrattualizzate di diritto, che nulla hanno a che fare con quelle strettamente gestite dal sistema della sanità pubblica in senso stretto.

Il fenomeno docet 
Il riferimento va a quella rete formatasi nel tempo nel Paese che si contraddistingue per l’iperattività erogativa eccelsa garantita dalla filiera composta dai cinquantuno (51) Irccs. Un esercito di Fondazioni, composto da ventuno (21) Irccs di diritto pubblico e ventotto (30) di diritto privato, costituenti una parte fondamentale del sistema della salute in termini di generazione del «volume di affari» più consistente a carico del bilancio del Ssn e di migliore erogazione dei Lea, senza che su di essi possa incidere (fortunatamente) la «capacità» imprenditoriale delle aziende della salute di riferimento essendo ad essi congeniale il management preposto dal rispettivo «padronato».

A dimostrazione di tutto questo, sarebbe sufficiente rendicontare quanto questi Irccs riescono a drenare annualmente dal «volume d’affari» del Ssn finanziato dalle finanze pubbliche. Un risultato economico cui si perviene sommando al valore della domanda locale, che vi fa naturale riferimento, quello attratto pro quota sul prodotto della mobilità passiva (4,9 miliardi nel 2017) che arricchisce le Regioni, per l’appunto, più ricche di Irccs, a discapito di quelle del Sud.

Su tutte la Lombardia, che ne conta ben diciotto – drenanti la fetta maggiore del fondo sanitario regionale meneghino – attrattive di una mobilità attiva di oltre 800 milioni milioni annui. Segue il Lazio (con circa 300 mln di mobilità attiva) che, con i suoi rinomati nove Irccs (tra tutti il Gemelli, la Santa Lucia, l’Idi e il Regina Elena) intercetta risorse, provenienti dalla mobilità attiva, compensative delle debolezze storiche del suo bilancio della salute. Ma anche l’Emilia-Romagna e la Liguria (relativamente produttive di oltre 350 mln e di circa 60 mln di mobilità attiva) rese forti dai loro Irccs, rispettivamente individuati – per esempio – nel Rizzoli e nel Gaslini.

A ben vedere, ci sono Regioni, tra queste quelle che annoverano più Irccs, che rimpinguano sensibilmente i loro bilanci con una ragguardevole porzione proveniente dalle ancora sopravvissute quote pro capite pesate storicamente riconosciute alle Regioni deboli in ragione dei loro residenti (solo la Calabria ne cede oggi oltre 320 milioni all’anno su una quota annuale di FSN di poco superiore ai tre miliardi e mezzo).

Un maggior introito che, di fatto, consente a siffatte Regioni di godere, rispettivamente, di maggiori risorse relazionato al criterio della residenzialità da destinare a prestazioni aggiuntive e/o a miglioramento della offerta di salute, anche in termini di ricettività. Il tutto con la favorevole conseguenza di rendere oltremodo accettabile il loro (particolare) modello aziendalistico consistentemente collaborato dalla incapacità di numerose Regioni a gestire il proprio sistema.

Una riforma quater?
Una tale considerazione porta a maturare l’esigenza di rivedere, sensibilmente e presto, l’organizzazione sistemica attuale del Ssn, non affatto capace di assicurare la uniformità prestazionale riferita ai Lea pretesi dalla Costituzione. Ciò in quanto i risultati conseguiti dall’aziendalismo, in una consistente parte del Paese, sono così scadenti e così compromessi, sia sul piano del patrimonio strutturale/tecnologico che su quello dei suoi bilanci, da lasciare presupporre addirittura significativi e deleteri peggioramenti dell’offerta di salute, tali da compromettere l’esistenza della salute pubblica.

A fronte di una tale situazione produttiva di verosimili ulteriori drammi assistenziali in tutto il Mezzogiorno, occorre mettere le mani all’attuale organizzazione sociosanitaria, generando una riforma quater definitivamente orientata, tra l’altro, a mettere insieme tutto il welfare assistenziale.

Quel sistema unitario posto a tutela dei diritti alla salute e all’assistenza sociale, sino ad oggi incomprensibilmente divisi, da concentrare in capo ad un unico soggetto pubblico che non sia l’attuale azienda della salute. Una «azienda» che non ha più modo di esistere, atteso che in una larga parte del Paese viene meno, da decenni, alle caratteristiche giustificative della sua perduranza.

In tutti i sistemi ordinamentali una simile iniziativa imprenditoriale, tali sono le aziende sanitarie e ospedaliere, che genera un prodotto fallato e/o di bassa qualità (nel caso i Lea non assicurati alla popolazione) e bilanci da inorridire chiunque, è obbligata a portare i libri in Tribunale per cessare la propria esistenza.

Nel Mezzogiorno, ad amministrare male la salute di venti milioni di residenti, esistono centinaia di aziende che hanno performance da incubo, tali da imporre un cambiamento radicale, pena il perdurare di un sistema che non garantisce quanto preteso dalla Costituzione in termini di esigibilità dei Lea (art. 117, comma 2, lett. m) e contravviene apertamente al concorso obbligatorio all’equilibrio di bilancio e alla sostenibilità del debito pubblico (artt. 97, comma 1, e 119, comma 1).

Magari, ricorrendo all’agenzificazione della salute, con ad essa preposti i migliori dirigenti selezionati attraverso procedure selettive pubbliche, in linea con il modello che tipizza oggi l’Agenzia delle Entrate, che tanti risultati sta conseguendo nell’interesse del bilancio della Repubblica.

Ettore Jorio
Università della Calabria

Ultimo aggiornamento

8 Maggio 2019, 08:18

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