Biotestamento e obiezione di coscienza. Il fondamentalismo religioso lasciamolo all’Islam (da quotidianosanita.it del 28 dicembre 2017)
Data:
17 Aprile 2018
La coscienza del medico risiede nell’assistere il morente, nell’evitare sofferenze inutili o terapie futili. Ma i fondamentalismi religiosi non sono evidentemente solo prerogativa dell’Islam. E in questa legge non c’è alcun sentiero scivoloso ma solo pietà cristiana e, senza citare il Papa, basta il buon senso
Da tempo si dibatte su queste problematiche e i medici e i pazienti con le loro famiglie hanno dato risposte che era tempo di tradurre in norme, non per ridurre a legge la irriducibile complessità della vita e della morte, ma per dare certezze giuridiche a chi affronta questi eventi rispetto a quella ricerca di senso cui ognuno ha diritto di dare la propria risposta.
Sono apparsi su questo giornale autorevoli commenti, quali quelli di Cavicchi e di Cembriani, che mi vedono assolutamente d’accordo. Ne scrivo ancora per ricordare come la legge riprenda lo spirito, se non quasi la lettera, del documento preparatorio della FNOMCeO discusso a Terni il 13 giugno 2009 e del Codice Deontologico approvato a Torino nel maggio 2014.
Riporto a tal fine alcuni passi del documento di Terni.
“Affrontare con legge un tema siffatto significa assumere quei principi etici che rilevano quando ogni essere umano, dinanzi alla malattia ed alla morte, diventa più fragile e pone domande ardue e personali a se stesso ed a coloro che portano l’onere della cura. Ai medici spetta il difficile compito di trovare, all’interno dei suddetti principi, il filo del loro agire posto a garanzia della dignità e della libertà della persona, delle sue scelte, della sua salute fisica e psichica, del sollievo dalla sofferenza, in una relazione di cura tesa a realizzare un rapporto paritario ed equo, capace di ascoltare ed offrire risposte diverse a domande diverse.
La Deontologia Medica colloca la relazione fra medico e persona assistita all’interno di un’alleanza terapeutica, espressione di pari libertà e dignità di diritti e doveri pur nel rispetto dei diversi ruoli. L’autonomia decisionale del cittadino, che si esprime nel consenso/dissenso informato, è elemento fondante di questa alleanza terapeutica, al pari dell’autonomia e della responsabilità del medico nell’esercizio delle sue funzioni di garanzia.
Ogni alleanza terapeutica, nella sua intimità ed unicità, assume straordinario significato nelle decisioni e nei comportamenti di fronte a condizioni a prognosi infausta e/o in fase terminale e/o caratterizzate da una perdita irreversibile della coscienza. Il medico ha il dovere di accompagnare chi soffre fino al termine della vita quale conclusione di una lunga e solida relazione umana.
Secondo il Codice Deontologico il medico infrange il principio dell’obbligo di garanzia quando insiste in trattamenti futili e sproporzionati dai quali fondatamente non ci si può attendere un miglioramento della malattia o della qualità di vita (accanimento diagnostico-terapeutico); il medico lede altresì il principio di giustizia se trascura di offrire un progetto di cura efficace e proporzionato al miglioramento della malattia o della qualità di vita al paziente terminale o incapace o comunque fragile (abbandono terapeutico) e viola, infine, il principio di autonomia del cittadino se insiste nell’intraprendere o nel perseverare in trattamenti rifiutati dal paziente capace ed informato.”
Al documento della FNOMCeO del 2009 si sono succeduti i documenti della SIAARTI, del Policlinico Gemelli, del Consiglio Sanitario Toscano e altri in Italia, mentre la legge francese del 2015, la sentenza della Suprema Corte del Canada e altre ancora, hanno segnato un cammino giuridico e scientifico che si adegua alle pressanti esigenze sociali che spesso si manifestano in dolorose scelte individuali. La repulsa sociale di fronte al diniego di una morte dignitosa e autonomamente scelta aumenta negli anni insieme alla contrarietà per un prevalere della tecnica che sembra porre in mano al medico e non più alla natura o alla fede il destino dell’uomo che soffre.
Riporto infine le norme del Codice Deontologico approvato a Torino il 14.5.2014 che riguardano questa vicenda umana, il fine della vita, e che si ritrovano nel testo della citata legge:
Articolo 20 c.2
Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura.
Articolo 26 c.2
Il medico riporta nella cartella clinica i dati anamnestici e quelli obiettivi relativi alla condizione clinica e alle attività diagnostico-terapeutiche a tal fine praticate; registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione.
Articolo 33 c.1 e c.2
Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura.
Il medico rispetta la necessaria riservatezza dell’informazione e la volontà della persona assistita di non essere informata o di delegare ad altro soggetto l’informazione, riportandola nella documentazione sanitaria. Il medico garantisce al minore elementi di informazione utili perché comprenda la sua condizione di salute e gli interventi diagnostico-terapeutici programmati, al fine di coinvolgerlo nel processo decisionale.
Articolo 35 c. 2
Il medico non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato.
Articolo 36
Il medico assicura l’assistenza indispensabile, in condizioni d’urgenza e di emergenza, nel rispetto delle volontà se espresse o tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento se manifestate.
Articolo 37 c.1 e c.2
Il medico, in caso di paziente minore o incapace, acquisisce dal rappresentante legale il consenso o il dissenso informato alle procedure diagnostiche e/o agli interventi terapeutici.
Il medico segnala all’Autorità competente l’opposizione da parte del minore informato e consapevole o di chi ne esercita la potestà genitoriale a un trattamento ritenuto necessario e, in relazione alle condizioni cliniche, procede comunque tempestivamente alle cure ritenute indispensabili e indifferibili.
Articolo 38c.1.e c.3
Il medico tiene conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento espresse in forma scritta, sottoscritta e datata da parte di persona capace e successive a un’informazione medica di cui resta traccia documentale.
Articolo 39 c.1
Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita.
Questa legge sembra aver seguito, almeno in parte, la strada di un “diritto mite”, limitandosi a definire la cornice di legittimità sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l’autonomia del paziente e quella del medico, e quindi evitando di prefigurare trattamenti disponibili o non disponibili nella relazione di cura.
A tal proposito cito ancora dal documento di Terni: “in accordo con tutta la letteratura scientifica, la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie, in grado di modificare la storia naturale della malattia, calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti, farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario ed infine richiedenti il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo. La sua capacità di sostenere funzioni vitali, temporaneamente o definitivamente compromesse, ne motiva l’impiego, in ogni progetto di cura appropriato, efficace e proporzionato, compresi quelli esclusivamente finalizzati ad alleviare le sofferenze. In queste circostanze, le intervenire la scelta informata e consapevole, attuale o dichiarata anticipatamente del paziente e la libertà di scienza e coscienza del medico“.
Questi principi hanno contribuito all’elaborazione di questa legge che tuttavia offre ancora molti aspetti sui quali occorre lavorare per renderne effettiva la esigibilità da parte di cittadini.
L’articolo primo legifera sul consenso informato, ovviando ad una apparente lacuna normativa. Un fatto importante sul piano giuridico, ma la vera sfida è culturale, sia per incrementare la consapevolezza dei cittadini sia perché questa prassi diventi costitutiva dell’agire medico come l’anamnesi o la visita clinica. Tutto ciò pone un problema di fondo: la raccolta del consenso o, meglio, l’informazione al cittadino (persona, paziente, malato come si preferisce) esige tempo. La legge parla di “tempo di comunicazione come tempo di cura”; il Codice Deontologico parla di “tempo di relazione come tempo di cura”. Non è questione da poco. Fino a che i nostri sindacati seguiteranno a proporre contratti fordisti tutto ciò non si realizzerà mai.
La relazione è sostanza della cura, anche quando si esegue un’angioplastica. I contratti moderni dovrebbero basarsi sui risultati, sul pay for performances, vale ancora il detto di Beaumol che oggi la produttività è aumentata di migliaia di volte escluso che per la durata dei quartetti di Mozart che richiedono lo stesso tempo di esecuzione oggi o nel settecento. Così è la prestazione medica, se deve rispondere alle richieste del cittadino, ai motivi che lo hanno spinto dal medico.
Tuttavia il consenso informato non è un concetto che possa preludere all’obiezione di coscienza.Questa non può esistere in questi casi, ha ragione Cembriani. La coscienza del medico risiede nell’assistere il morente, nell’evitare sofferenze inutili o terapie futili. Ma i fondamentalismi religiosi non sono evidentemente solo prerogativa dell’Islam! E in questa legge non c’è alcun sentiero scivoloso ma solo pietà cristiana e, senza citare il Papa, basta il buon senso.
La conclusione è che, come spesso accade, la questione principale risiede nell’elevazione culturale di tutti. La Federazione dovrebbe porsi questo problema e avviare corsi per medici non solo sull’assistenza all’ultimo anno di vita ma sulla palliazione, intesa come comportamento che il professionista assume fin dall’inizio di una patologia potenzialmente mortale. Questa è la vera sfida posta dalla legge, cui i medici debbono saper rispondere.
Infine un’ulteriore conclusione. Le leggi seguono con ritardo l’evoluzione della società. Anche questa legge ha un sapore vecchiotto. A parte la tutela giuridica, utile in un paese di anomia del diritto, non vi sarebbe bisogno di norme per regolare la relazione tra medico e paziente. Il ritorno alla medicina narrativa non è altro che il recupero della conversazione del medico col paziente e con i familiari che, instaurata fin dall’inizio di una patologia, prepara a quell’ultimo anno di vita e alla fase finale della malattia, in una sintesi tra le possibilità palliative della scienza e la volontà e i desideri del malato, una forma di rispetto e tolleranza che, tra l’altro, comporterebbe anche benefici per il servizio sanitario.
Antonio Panti
Ultimo aggiornamento
11 Giugno 2019, 23:39
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