Vita da medico. Del nostro lavoro decidono tutti, tranne noi. Per questo il sindacato deve cambiare (da quotidianosanita.it del 7 novembre 2018)
Data:
5 Gennaio 2019
Decidono i politici, quando impongono direttori generali, direttori sanitari, capi dipartimento e primari. Decidono gli economisti, che adattano agli ospedali metodi di valutazione aziendalistici. Decide il governo che, regolarmente, sceglie di effettuare tagli lineari e indiscriminati. Il sindacato dovrebbe rinnovarsi e spingersi al di là della semplice rappresentanza nella contrattazione del rinnovo del contratto
Lavoro in questo ospedale da 3 anni ed ho già accumulato sei mesi di surplus orario (non pre-conteggiato, non retribuito ), ma ciò che più mi pesa non sono tanto le ore in più che comunque come è facile immaginare, limitano la mia vita privata, ma la “densità” del lavoro da svolgere, il fatto che nella stessa unità di tempo si debbano fare tre o quattro cose insieme e non banali. Alla fine lo stress è alle stelle, la responsabilità è enorme e l’errore è dietro l’angolo. Ogni giorno incredibilmente vedo aumentare ulteriormente il carico di lavoro che mi viene attribuito: periodicamente l’amministrazione comunica che nuove mansioni amministrative e burocratiche vengono assegnate a noi medici e oramai mi vedo costretta a passare ore tra le scartoffie e il computer. Ogni giorno vedo incrementare le richieste di esami inutili volti a ”difendere” la classe medica dal rischio di denuncia, ogni giorno combatto una “lotta tra poveri” con i colleghi, che mi fa perdere tempo ed energie, per l’utilizzo di strutture e strumentazioni carenti o antiquate.
Spesso penso che ci sarebbe davvero tanto da fare per migliorare le condizioni del lavoro mio e dei miei colleghi e mi domando chi meglio di noi potrebbe saperlo e farlo? Eppure tutti decidono del nostro lavoro tranne noi.
Del lavoro di noi medici ospedalieri e quindi del mio lavoro, decidono i politici, quando impongono direttori generali, direttori sanitari, capi dipartimento e primari non sempre scelti per effettiva dimostrazione di merito ma piuttosto per altri motivi che si possono immaginare.
Del mio lavoro decidono gli economisti, che adattano agli ospedali metodi di valutazione aziendalistici e a noi medici ospedalieri chiedono prestazioni come se fossimo operai (con tutto il rispetto) che producono scarpe o elettrodomestici in catena di montaggio, dimenticandosi che il fine delle nostre attività dovrebbe essere in realtà la salute della nostra gente.
Del mio lavoro decidono gli informatici e gli amministrativi che impongono ai medici attività burocratiche crescenti e mi trovo ad avere mille siti con mille password di accesso diverse, uno per scrivere le lettere di dimissioni, uno per i referti degli elettrocardiogrammi, uno per le consulenze per il pronto soccorso, uno per le viste cardiologiche, uno per dispensare i farmaci, uno per accedere agli esami di laboratorio, uno per l’angolo del dipendente e la richiesta di ferie, uno per fare il piano terapeutico dei farmaci, uno per i certificati medici per assenza dal lavoro etc etc (aiuto!).
Del mio lavoro decide il governo, che regolarmente, per ovviare al deficit, sceglie di effettuare tagli lineari e indiscriminati alla sanità, togliendoci le risorse minime necessarie per garantire la salute e la dignità dei pazienti, nonché, cosa sicuramente meno importante, la salute e la dignità del personale sanitario. Ci ritroviamo a lavorare in strutture in cui piove d’inverno e si boccheggia d’estate, in cui non ci sono posti letto nei reparti per togliere i pazienti dalle barelle del pronto soccorso, in cui la carenza di organico è ormai cronicizzata e le liste d’attesa lunghe eterne.
La sensazione più diffusa è che sulle decisioni inerenti gli ospedali e il lavoro al loro interno, noi medici ospedalieri non abbiamo più voce in capitolo. Non ho mai voluto rassegnarmi a questo e ho provato sempre a far sentire la mia voce e a lottare per quelli che ritengo gli aspetti più importanti della professione.
La lotta per la formazione specialistica
Ho iniziato a combattere quando ero in scuola di specialità. Insieme a migliaia di altri specializzandi chiedevamo semplicemente che nelle scuole di specialità venissero garantiti i percorsi formativi previsti dalle normative europee (emesse dieci anni prima e non ancora attuate nel nostro paese, che per questo pagava annualmente una multa). Mi ricordo che era possibile (e frequente) uscire dalla scuola di specializzazione senza aver avuto la formazione adeguata, per esempio diventare chirurghi senza mai aver effettuato un intervento chirurgico da primo operatore o divenire cardiologi senza saper mettere un pace-maker temporaneo in urgenza. Noi specializzandi venivamo usati solo come manodopera a baso costo per coprire turni di guardia e di giro-letti. Durante la nostra lotta ci ritenevamo invincibili perché avevamo dalla nostra parte l’innegabile necessità e correttezza delle nostre richieste, l’audacia di chi non ha molto da perdere nel presente e tutto un futuro davanti da conquistare, la sensazione che la professione medica fosse una missione, che necessitasse di passione, dedizione, umanità e.. adeguata formazione. Andavamo per le strade con il camice e gli striscioni, sui giornali con i nostri slogan, negli ospedali a far sentire la nostra voce. Noi specializzandi dei miei anni, finimmo la scuola di specialità senza vedere alcun risultato raggiunto e la formazione l’abbiamo fatta dopo, in ospedale, sul campo, dovendoci assumere grosse responsabilità senza adeguate tutele.
Il lavoro ospedaliero
L’ingresso nel mondo ospedaliero, carico di grandi aspettative, si rivelò essere solo l’inizio di nuove battaglie. In pochi anni ho lavorato nelle cardiologie di diversi ospedali del veneto avendo la possibilità di confrontarmi con diverse realtà e scoprire quanto potessero essere mutevoli e poco standardizzate negli schemi organizzativi dei reparti.
Si passava da un reparto in cui vi era un maniacale controllo primariale su tutto, dal percorso di inserimento in ogni attività che venivo chiamata a svolgere, per verificare le mie reali capacità e conformità ai percorsi stabiliti, alla mia puntualità sul lavoro, alle decisioni prese sui pazienti etc, a reparti dove si era completamente abbandonati a se stessi, in guardia il secondo giorno di servizio con l’onere di scoprire sul campo tutto ciò che mi sarebbe servito, con percorsi di inserimento e di verifica completamente assenti.
Adesso che, dopo anni di lavoro, ho acquisito la mia indipendenza, non ho finito di lottare.
Il sindacato deve rinnovarsi
Faccio difficoltà ad accettare di conoscere quale che sia il modo giusto di lavorare e avere le capacità di organizzarlo al meglio, ma non poter incidere in alcun modo su un sistema “incrostato” e cristallizzato nel suo cattivo funzionamento. Noi medici dovremmo poterci esprimere di più nei percorsi decisionali ed organizzativi che riguardano il nostro lavoro e a tale scopo uno strumento importante penso possa essere il sindacato se riuscirà a rinnovarsi e ad esprimersi anche in ambiti nuovi, spingendosi al di là della semplice (seppure importante) rappresentanza nella contrattazione del rinnovo del contratto di lavoro.
Silvia Romano
Anaao Giovani, Dirigente medico presso UOC di Cardiologia Mirano (VE)
Ultimo aggiornamento
5 Gennaio 2019, 17:24
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