Carenza medici. E se fosse “programmata”? (da quotidianosanita.it del 4 maggio 2019)
Data:
4 Maggio 2019
04 MAG – Gentile Direttore,
da quando è stato introdotto il numero chiuso per l’accesso a Medicina per far fronte alla allora pletora medica, conteggiare il fabbisogno di medici e specialisti sarebbe dovuto essere il compito non troppo complicato di chi ha governato la sanità in questo Paese.
Cosa ha impedito che questo avvenisse? In questi giorni su Repubblica (28 aprile) Concita De Gregori pubblica la lettera di una mamma di una giovane laureata in medicina.
“Nostra figlia, come altre sue colleghe e colleghi, ha lavorato con serietà e costanza, laureandosi alla prima sessione del sesto anno. I primi, insomma, a giungere al traguardo, del suo anno di immatricolazione. A questo punto i test di ammissione ai corsi di Specializzazione si sono rivelati una prova ostica non per la preparazione specifica, ma per l’aspetto psicologico… ma non solo.
I posti a disposizione degli aspiranti sono all’incirca la metà. Significa che, secondo i politici e chi amministra la sanità sarebbero serviti solo la metà degli studenti ammessi in facoltà sei anni prima? O che solo la metà dei laureati italiani è meritevole di continuare il percorso di formazione obbligatoria per accedere al Servizio Sanitario Nazionale?”.
Domande più che legittime che ci inducono a chiederci se ci sia stato davvero un errore di calcolo dovuto a uno sguardo particolarmente miope delle classi politiche che si sono succedute al governo di questo Paese negli ultimi anni o se invece vi sia un progetto deliberato di impoverimento della sanità pubblica a partire dal capitale umano, che nel caso del medico risulta economicamente oneroso.
A pensar male spesso ci si azzecca recita un vecchio detto e forse non recita male.
L’idea che quella del medico sia una professione “fungibile” in fondo è presente da tempo.
Lo sviluppo tecnologico sempre più avanzato ha creato l’illusione che le macchine possano in gran parte sostituire il lavoro del medico fino ad arrivare a soppiantarlo.
Lo dice bene il dr. Aldo Di Benedetto nel suo articolo “Il Medico del futuro: un robot in camice bianco?”, (QS 12 aprile): “Si è diffusa una aspettativa e una credenza per la quale la tecnologia potrà guarire i malati e proporre attività di prevenzione; in un futuro, forse prossimo, sostituire l’attività del medico “
L’uso di algoritmi e protocolli standardizzatati sta riducendo il percorso clinico a un atto “automatizzato ”nel quale il medico può essere facilmente sostituito se non si tiene conto del limite di attendibilità del loro utilizzo come spiega bene il dr. Giampaolo Collecchia nel suo articolo (QS 20 aprile): “I sistemi di IA devono essere considerati uno strumento, come il microscopio, il fonendoscopio, l’elettrocardiografo, sviluppati nel tempo per sopperire alla limitata capacità percettiva dei medici. I risultati migliori sono attesi quando l’IA lavora di supporto al personale sanitario, “secondo set di occhi”, modalità di integrazione culturale tra umani e macchine”
E per ultimo ma non affatto ultimo, il trasferimento di competenze avanzate a infermieri e altro personale sanitario sembra essere il corollario perfetto su cui si gioca la fungibilità del medico.
Del resto in altre parti del mondo questo già avviene : “ll futuro della primary care negli Stati Uniti sarà dominato dagli infermieri con competenze particolari che li avvicinano molto ad un medico di medicina generale, i cosiddetti nurse practicioner (NP). Sono competenti, piacciono ai pazienti e costano il 30% circa in meno di un medico di famiglia”, (Qs 18 settembre).
Ma davvero si può immaginare un futuro prossimo in cui l’arte medica potrà essere sostituita se non del tutto, in gran parte da altre figure professionali, da algoritmi e macchine pensanti?
Al momento data la mancanza di medici-specialisti non è escluso che queste possano essere le soluzioni proposte dopo quelle non meno inquietanti già assunte in ordine sparso nella varie Regioni: assunzioni di medici in pensione , assunzione di medici rumeni, assunzione di neo laureati nei Pronto soccorsi.
A pensar male spesso ci si azzecca….
Del resto noi medici non siamo del tutto esenti da responsabilità nel processo di impoverimento intellettuale della nostra professione.
Siamo noi che abbiamo accettato una medicina “amministrata” che ci ha ridotti a poco più di impiegati; siamo noi che ci affidiamo alla tecnica con religiosa fiducia trascurando spesso la raccolta dell’anamnesi e la visita medica, siamo noi che non abbiamo saputo far valere l’enorme capitale intellettuale che rende grande la nostra professione affidandoci sempre più a una visone positivista e trascurando le nostre radici umanistiche.
Ma come si difende l’infungibilità del nostro ruolo? Basta ritoccare il profilo, o aggiustare l’organizzazione della sanità, o lucidare una deontologia datata, o insegnare qualcosa in più agli studenti di medicina all’università, o aggiornare la metodologia?
Ci troviamo in una posizione difficile e scomoda: tra apologia e autocritica , quindi tra tradizione e innovazione, tra ortodossia e eterodossia, e come dicono le 100 tesi rispetto alla nostra tradizione ci dobbiamo prendere la responsabilità di decidere cosa sia giusto conservare e cosa sia giusto cambiare sapendo noi bene che in ogni caso a causa della natura sociale della medicina ciò che dobbiamo conservare e ciò che dobbiamo cambiare deve essere socialmente accettabile, cioè deve comunque dare qualcosa di più e di meglio.
Una impresa decisamente difficile non c’è che dire, ma la difesa dell’infungibilità della professione è necessaria e doverosa ora più che mai se vogliamo evitare derive inadeguate e finanche pericolose che stanno prosperando anche in virtù di una mancanza di medici specialisti enfatizzata ad hoc solo ora.
Ornella Mancin
Presidente Fondazione Ars Medica
Omceo Venezia
Ultimo aggiornamento
4 Maggio 2019, 17:17
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