Ospedali comunità, Aulizio (Simet): linee guida nate per malati dimessi da Hub. Nessun progetto su territorio (da DoctorNews33 del 23 marzo 2018)

Data:
23 Marzo 2018

«Le nuove linee guida stato-regioni sull’ospedale di comunità che si approvano in questi giorni sono la pietra tombale sull’integrazione territorio ospedale e sull’ospedale di comunità come era stato concepito a supporto della medicina territoriale negli anni Novanta. Formalizzano un’occupazione forzosa da parte dell’ospedale, vedremo quanto a beneficio del paziente».

Giancarlo Aulizio responsabile ospedali di comunità del sindacato dei medici del territorio Simet e pioniere del più noto country hospital, poi ospedale di comunità (OdC), – sorto a Modigliana nel 1996 – boccia il testo che prevede una sostanziale riconversione di ospedali da 40 posti letto di media in due moduli da 15-20 posti letto ciascuno, un responsabile clinico che può essere medico di famiglia, ospedaliero, specialista o anche di struttura privata convenzionata e uno o due responsabili organizzativi di estrazione infermieristica, che su pazienti con bisogni prevalentemente sanitari curano una cartella clinica integrata. «Dimentichiamo il medico di famiglia che prende in carico pazienti con problemi anche sociali, tutti a lui noti, pazienti suoi e dei colleghi della medicina di gruppo, affetti da neoplasie anche terminali, bronchiti riacutizzate o broncopolmoniti non complicate, cardiopatie anche leggermente scompensate e tante altre, provenienti dal territorio per ridurre i ricoveri impropri o dimessi dall’ospedale in ambiente protetto. Il nuovo acronimo Os.Co. sottende un ospedale riconvertito a bassa intensità con prevalenza netta di pazienti dimessi da strutture ospedaliere anche lontane, pazienti ortopedici, cardiopatici o reduci da interventi chirurgici in coerenza con i bacini degli ospedali di riferimento», spiega Aulizio.

Lavorando nel Forlivese, racconta dell’ospedale di Forlimpopoli, nato Os.Co. nel 2013 e oggi preso ad esempio dalla Regione, dove attualmente l’85-90% dei ricoverati proviene dai reparti dell’ospedale Morgagni Pierantoni di Forlì e non sono residenti nella città artusiana. «Si tratta in pratica di un servizio ospedaliero con a capo tre medici strutturati in servizio dalle 8 alle 14, mentre i medici di famiglia locali assicurano una reperibilità fino alle 20. Io ho visto nascere e ho divulgato l’ospedale di comunità dei medici di famiglia, ma ora sto assistendo alla imposta ritirata di questi ultimi, mentre ancora nel 2006-08 il piano sanitario del ministro Livia Turco riprendeva linee di sviluppo “territoriali”. Solo nel 2010 l’Emilia Romagna deliberò sugli ospedali di comunità e ne rimasi impressionato perché, malgrado fossimo stati i primi a sperimentare questa innovativa modalità assistenziale, per deliberarla attendemmo il sorpasso di tredici regioni». Anche a Modigliana, l’ospedale di comunità Os.Co. dal 2015, non è più un esempio di integrazione: «Medici di famiglia e ospedalieri collaborano bene a livello personale (e questo per il paziente è molto importante), ma, mentre al piano terra i mmg usano un software comune a tutti i colleghi della medicina di gruppo, quando sono in attività nell’ospedale di comunità al terzo piano sono costretti ad utilizzare Log 80, programma informatico dell’ospedale Morgagni -Pierantoni, e i due non si interfacciano. Ci si chiede dove finiscano i flussi informatici delle prestazioni e come si considerano i costi: sono attività territoriali o ospedaliere? Ma ci sono altre problematiche, i Drg territoriali sono mutuati da quelli ospedalieri e non potrebbe essere altrimenti, di pazienti con problematiche sociali e sociosanitarie non se ne ricoverano più. Insomma, l’ospedale di comunità non è più al servizio della comunità. Pur finanziato negli anni dai fondi territoriali, integra l’assistenza di un ospedale che, dovendo aderire al decreto sugli standard ospedalieri e allo standard di 3 letti ogni 1000 abitanti più 0,75 per 1000 posti letto di lungodegenza, ha dovuto sacrificare dei letti al proprio interno, riaprendoli “de facto” sul territorio. Ma per il medico di famiglia un conto è assistere un paziente che conosce da sempre, così come i suoi familiari, altro è assistere qualcuno di cui non sa nulla, con patologia sanitaria spesso complessa, indirizzato in periferia da commissioni di valutazione ospedaliere e con la possibilità di un maggior contenzioso. Le prime linee guida furono fatte dal Simet nel 1998, ma le nuove a questi temi non rispondono e di fatto abbandonano un progetto realizzato, che la storia ha validato, gradito alla gente, ai medici, a tutti».

Mauro Miserendino

Ultimo aggiornamento

23 Marzo 2018, 08:30

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