Condannato il medico ayurvedico: «Non ha agito nel migliore interesse del minore» (da “Il Sole 24 Ore Sanità” Notiziario del 25 marzo 2015)

Data:
26 Marzo 2015

In ogni tipo di terapia, anche quelle non convenzionali, il medico che cura un minore assume sempre una posizione di garanzia. È per questo che viene meno al suo dovere quando non impedisce l’evento letale determinato dalla somministrazione di una terapia alternativa non efficace e, di conseguenza, è responsabile di omicidio colposo per la morte del bimbo, questa è l’opinione della quarta sezione penale, espressa nella sentenza n. 8527/2015 del 25 febbraio, che ha confermato ai fini civili, essendo prescritto il reato, le decisioni di merito delle corti. La storia riguarda il caso di un bambino di 5 anni affetto dalla nascita da fibrosi cistica. Nei primi 4 anni di vita, il piccolo era stato curato in modo tradizionale, poi visto che il quadro clinico non migliorava, i genitori hanno scelto la via delle cure non convenzionali e si sono rivolti a un noto medico bolognese, specializzato nell’approccio ayurvedico. Il bimbo morì a seguito alla riacutizzazione polmonare necrotizzante bilaterale in un quadro di fibrosi cistica. Situazione che avrebbe richiesto una decisa risposta medica (immediato ricovero in sede ospedaliera; antibiogramma; somministrazione massiccia e mirata di antibiotici per via endovenosa) che, secondo la sentenza, il medico «ebbe clamorosamente a omettere».

La sentenza mette fine a una vicenda che tiene banco dal 2006, quando morì il bambino, ed entra in due questioni spinose: i limiti del consenso informato quando c’è il coinvolgimento di un minore e il corretto comportamento che il medico deve tenere nel caso in cui i genitori rifiutino le cure, tanto più quando esse siano sostituite da terapie non convenzionali. Il medico si è sempre difeso sostenendo che quando sono arrivati da lui, i genitori avevano già interrotto le cure tradizionali e avevano anche chiuso i rapporti con il pediatra che curava il figlio dalla nascita. Secondo il medico bolognese, il piccolo era già in condizioni critiche quando lo aveva visitato la prima volta, e, in pieno accordo con i genitori egli si era limitato a sostenere il piccolo con la medicina alternativa, nella consapevolezza dei limiti di quella pratica terapeutica. Su questo punto i giudici non hanno accolto nei due gradi del processo la tesi del sanitario e infatti la Cassazione ha spiegato «Il sanitario è responsabile dell’interruzione delle terapie tradizionali, nonostante la scelta consapevole dei genitori, spettando in ogni caso al medico curante, non solo il compito di prospettare la certa inidoneità della terapia ayurvedica (di per sé sola insufficiente a garantire soluzioni terapeutiche realmente alternative a quella tradizionale) e, dunque, le reali conseguenze cui avrebbe condotto l’abbandono del percorso terapeutico tradizionale, bensì il dovere – a fronte di una scelta genitoriale orientata in termini così palesemente e gravemente rischiosi per la salute del figlio minorenne – di coinvolgere nel processo decisionale i soggetti istituzionali preposti alla tutela pubblica del minore (il medico di base; il giudice tutelare ecc.), al fine di sollecitare un dialogo giuridicamente corretto e sostanzialmente più proficuo per l’individuazione del “best interest” del minore; dialogo tanto più essenziale (e giuridicamente doveroso) là dove venga prospettata l’adozione di cure che (per la prevalente destinazione a garantire un accettabile standard qualitativo di vita in un quadro di accertata inguaribilità) valgano a proporsi come forme terapeutiche meramente palliative o compassionevoli: soluzione estrema che i genitori devono ritenersi da soli non legittimati ad assumere, in assenza di un adeguato confronto con i soggetti istituzionalmente preposti al controllo e alla tutela del minore»

Ultimo aggiornamento

26 Marzo 2015, 08:40

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