Al lavoro dopo il virus, Galli (Sacco): tampone ed esame sangue per identificare popolazione immune

Data:
4 Aprile 2020

3 aprile 2020    da dDoctor33 Mauro Miserendino

Una flessione lenta e duratura dei ricoveri potrebbe essere il primo segnale che il picco del coronavirus è alle spalle. Ma, all’indomani del decreto del premier che fa slittare al 13 aprile il lockdown in Italia, non si vedono i presupposti per pensare alla ripresa.
Certo, nell’identificare il momento del ritorno al lavoro il laboratorio potrebbe avere un ruolo importante. È la sintesi del pensiero di Massimo Galli responsabile Malattie infettive Ospedale Sacco e past president della Società italiana di Malattie infettive Simit.
Per costruire la ripresa, la Germania vorrebbe utilizzare i test sierologici rapidi che individuano gli anticorpi al Covid-19 su tutta la popolazione per distinguere i soggetti ancora a rischio contagio e gli immuni e dotare questi ultimi di un Covid-Pass con cui andrebbero a lavorare per primi, seguiti a distanza di 15-20 giorni dagli altri.
In Italia il virologo dell’Università di Padova Andrea Crisanti intervistato da Ansa lavora per realizzare un’indagine sierologica in tempo brevi ma non esclude un piano di riaperture scaglionate con tre livelli di sicurezza che consisterebbe nel sottoporre tutti i lavoratori a tampone preventivo prima della riapertura delle aziende, con ripetizione del test a campione per scovare falsi negativi, uso di dispositivi di protezione in azienda e tracciatura dei dipendenti via telefonino così da individuare subito i contatti in caso di positività. Galli ribadisce che è presto per pianificare il “dopo”.
«Il problema oggi è evitare che la malattia dilaghi al Centro e al Sud ed è presto per dire che non succederà. Il Nord è diviso tra aree -la Lombardia- dove si ipotizza una grande quantità di infezioni non rilevate ed altre con situazione più favorevole (Veneto). Il test sierologico ha una limitazione: anche disponessimo di un test rapido che valuta la presenza di anticorpi Igg positivi, solo l’esito del tampone, più lungo da attendere, ci direbbe se l’infezione è tuttora in atto o meno. Un paziente Igg positivo con tampone negativo con buone probabilità ha superato l’infezione e, per analogia con altri virus, la storia ci dice che non dovrebbe riprenderla, non subito».Quindi per uno screening ben fatto che distingua immuni da non immuni e da pazienti c’è bisogno di attrezzarsi per fare due test e di tempo. «Mi pare prematuro invece – aggiunge Galli – dire oggi se sia possibile mandare tutti a lavorare adottando precauzioni che fin qui purtroppo sono state insufficienti. È vero che con Dpi adeguati in un reparto di infettivologia lavoriamo tutti i giorni con pazienti contagiosi, ma da qui ad ipotizzare idonea copertura per tutta la popolazione ce ne corre: servirebbero mascherine indossate con regolarità e sicurezza e quanti potrebbero averne? Servirebbero poi disposizioni organizzative, adeguata quantità di tamponi (in Lombardia la potenzialità è 5 mila al giorno) e di operatori sanitari protetti che li pratichino». I tamponi a tappeto sulla popolazione, secondo un’indagine dell’Università di Harvard a firma Gary P. PisanoRaffaella Sadun e Michele Zanini, potrebbero aver limitato il focolaio in Veneto mentre la Lombardia ha visto tracimare i casi Covid-19 sugli ospedali.
Galli non esclude la maggior efficacia dell’approccio veneto, ma avverte: « È un fatto che in Lombardia i contagiati sono molti di più dei positivi censiti, fino a 6 volte e forse fino a 10. Con le misure intraprese a marzo, nel resto d’Italia sono stati distanziati i sani, qui sono stati distanziati molti malati. Viviamo una situazione peculiare e dobbiamo tenerne conto». Per inciso, «lasciano il tempo che trovano notizie come quella secondo cui il Covid girasse nella Bergamasca già a ottobre 2019: se così fosse a fine gennaio non avremmo avuto casi singoli ma grandi gruppi di contagiati. Probabilmente l’attenzione sul Covid-19 sta richiamando interesse sull’impatto di infezioni virali polmonari che ci sono sempre state».

Il test sierologico, che distingue immuni e non immuni, si presta meglio per i grandi numeri di popolazione? «A fini epidemiologici credo sia rilevante poter avere risposte in pochi minuti anziché in giorni. Certo, servono metodiche universalmente attendibili. Non in tutti i casi è semplice individuare nella goccia di sangue gli anticorpi IGM, spia di infezione in corso. E serve una sierologia più “robusta” per tracciare la sicura infezione pregressa e la sicura negativizzazione con verosimile guarigione. All’orizzonte vedo affacciarsi i test di sierologia qualitativa, che valutano la quantità di anticorpi nel sangue venoso».
Quando si potrà dire che è vicino il momento di tornare al lavoro, con le debite gradualità? «A guidare la ripresa potrebbe essere l’andamento delle nuove infezioni e delle ospedalizzazioni. Un calo di queste ultime fotografie dei contagi avvenuto circa una settimana prima, dal momento che tra l’esordio dei sintomi e l’eventuale ricovero la mediana dei giorni di malattia è di sette. Quando la pressione dei pazienti sugli ospedali fletterà per un paio di settimane, il trend in chiaro calo ci dirà che l’infezione per diffusione si è ridotta o sta per sparire. Purtroppo, il numero di persone cui in Lombardia è stato fatto il tampone è una minoranza e ciò non aiuta la precisione. Sarebbe inoltre opportuno attivare in anticipo misure che consentano di individuare un aumento di ex infettivi e identificare questi ultimi come soggetti immuni da nuovi contagi: più in uno stesso ufficio lavorano degli “immuni”, meno probabilità avrà un “non immune” di prendere l’infezione».

 

Ultimo aggiornamento

23 Maggio 2020, 15:38

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